produzione

Una bella discussione sul riscaldamento globale

Mi inserisco volentieri nel discorso sul riscaldamento globale, iniziato da Luca De Biase e Pandemia.

Per iniziare vi consiglio caldamente questo testo di Domenico Coiante, un esperto in materia di fonti di energia rinnovabile:
Le nuove fonti di energia rinnovabile. Tecnologie, costi e prospettive

Io credo nella discussione, i due Luca abbiano messo il dito sul punto della situazione: l’allarmismo a volte impedisce di vedere chiaramente il problema, e mette un muro tra il comunicante e la persona che ascolta. La paura non è quasi mai un buon veicolo pubblicitario, soprattutto quando è rivolta ad un problema che non viene percepito chiaramente nel presente.

Esistono dei punti fermi dai quali si può partire, per iniziare un discorso sul riscaldamento della terra generato dall’uomo.
In trent’anni l’uso dei combustibili fossili è aumentato dell’80% e questo è un dato di fatto che non può essere smentito. Queste fonti di energia aumentano il volume dell’anidride carbonica di uno 0.90% all’anno rispetto al totale di quella presente nel mondo. Considerando quindi l’aumento di popolazione che è ancora esponenziale, l’aumento della produzione di anidride carbonica aumenterà ancora nei prossimi decenni. L’anidride carbonica è responsabile del riscaldamento del globo, e discutere sulle possibili quantificazioni del problema credo che sia superfluo, in questo momento (dire che ci sarà un problema tra 40 o 50 anni, non cambia i dubbi sull’esistenza del problema).

Partendo dalla considerazione che comunque questa produzione ha delle conseguenze forti ed ormai innegabili sul clima del pianeta, bisogna iniziare a pensare a cosa fare per contrastare questa tendenza.

Coiante nel suo libro è molto poco allarmista, e scrive nel dettaglio quali sono le scelte economiche, sociali e politiche che dovremmo adottare proprio per questo motivo.

Lasciando stare il dubbio che sia immminente o no un disastro climatico, credo che dal punto di vista emotivo si abbiano più chances di cambiare le cose con un atteggiamento meno catastrofista, ma allo stesso tempo fermo sulle azioni da intraprendere.
Il catastrofismo spesso allontana le persone, che semplicemente non accettano una posizione così pessimista. Bisogna ricordare che l’uomo vede solo all’oggi, con fatica pensa a cambiare le sue azioni in vista di un domani che viene dipinto in maniera così catastrofica.

Questo non significa non prendere in considerazione il problema: semplicemente adottare un metodo diverso dal terrore per diffondere coscienza sul tema.


Bisogna iniziare ad internalizzare i costi ambientali, solo pagando di tasca propria i danni che si fanno all’ambiente si riuscirà a far percepire il senso di queste iniziative.

Il valore del protocollo di Kyoto per me è ancora maggiore perché finalmente riesce a far entrare una politica ecologica dentro un sistema economico complesso.
Kyoto è un buon inizio, se vogliamo tardivo, ma ora dobbiamo rispettare i vincoli che ci impone, cercare di includere in questo processo tutti i paesi che non hanno aderito, e procedere con nuove azioni politiche ed economiche.

Io credo che questa, ora, sia l’unica strada per ottenere qualcosa.

Di chi sono le idee?

Nei mesi scorsi si è molto discusso sui problemi di proprietà intellettuale, di come essa vada tutelata dalle leggi, di come realizzare un giusto equilibrio che permetta ai cittadini di rispettarle e trarne giovamento. La comunità europea si è quindi messa al lavoro sulla regolamentazione dei brevetti, con particolare attenzione a quelli riguardanti il software, una delle poche parti non brevettabili secondo le leggi vigenti. Il motivo di questo improvviso interesse si può ricercare nella continua pressione di grosse multinazionali americane, che vogliono creare una uniformità di trattamento tra l’Europa e gli Stati Uniti. Negli States, infatti, è possibile brevettare il software, mentre in Europa è stato espressamente vietato dalla convenzione di Monaco del ’73, e c’è stata una forte attività di lobbying per cercare di espandere questa possibilità anche nel vecchio continente.

Questa decisione porta considerazioni economiche, culturali, politiche ed etiche, ed una trattazione seria di tutto l’argomento richiederebbe una letteratura molto più vasta di un solo articolo, per questo motivo mi limiterò a dare un mio giudizio sulle questioni etiche che stanno alla base del problema dei brevetti sul software, perché lo ritengo particolarmente interessante.

Il software altro non è che l’applicazione pratica di algoritmi e metodi matematici. Partire da un’idea diversa è sbagliato, e potrebbe trarci in inganno. Tutto quello che vediamo, dai programmi di videoscrittura ai programmi per la navigazione, sono dirette o indirette applicazioni di algoritmi matematici e paradigmi di statistica e matematica discreta. A volte lo sono indirettamente, quando il programmatore non ha realizzato l’opera utilizzando formule ed espressioni matematiche, ma in questo caso il suo lavoro poggia su quello di altri, che hanno creato le basi per facilitare il suo compito. Tutto questo è necessario per capire il motivo per il quale non è possibile brevettare il software, ma solamente proteggerlo con il copyright.

I brevetti servono per proteggere le innovazioni tecniche, dove per innovazione viene inteso un miglioramento dello stato dell’arte di un settore finalizzato alla produzione. Se invento un modo per produrre energia dall’acqua, posso proteggerla tramite un brevetto. I brevetti sul software, così come sono intesi in America, sono invece brevetti sulle idee. Un esempio può essere l’idea di barra di scorrimento, quella che utilizziamo per vedere le pagine successive di un documento, oppure l’idea di utilizzare un pulsante che richiami una funzione. Dietro questo tipo di idee non c’è una innovazione che porti alla produzione, soprattutto quando quello che si vorrebbe brevettare riguarda unicamente l’interfaccia con la quale gestiamo alcune delle caratteristiche dei computer.

Molte associazioni, tra le quali anche il Forlì Linux User Group, hanno protestato con tutti i mezzi a loro disposizione contro l’introduzione dei brevetti sul software, non con l’obiettivo di liberalizzare la copia dei programmi, già protetta ad hoc dal Copyright, ma con la viva preoccupazione che si potessero brevettare anche nel nostro paese le idee alla base dell’utilizzo dell’informatica.

Sembrerebbe folle il solo pensiero di brevettare l’idea di un volante per automobili, cosa che impedirebbe ai cittadini di cambiare automobile nel corso degli anni, ma gli analoghi riferimenti nel campo dell’informatica, forse perché ancora lontani dalla cultura popolare, non destano altrettanta preoccupazione.

E’ difficile esprimere un giudizio su chi sia il proprietario di un’idea, e se questa “proprietà” vada tutelata per incentivare l’innovazione. In America i brevetti sul software non hanno funzionato, incentivando direttamente la nascita di monopoli settoriali, a causa delle enormi spese giuridiche alle quali sono continuamente sottoposte le ditte produttrici di software (con una media di 500’000 dollari a causa, per essere precisi).

Le idee sono il frutto di un’opera collettiva, nascono e si riproducono grazie allo scambio di informazioni e all’interazione di idee diverse, che ne procreano altre che saranno alla base delle prossime. Il teorema di Pitagora non è mai stato brevettato, ma non si può dire che la diffusione di questa idea non abbia portato innovazione. Per questo l’impossibilità del libero scambio delle idee non funziona come incentivo alla loro produzione, e quasi sempre accade l’esatto contrario, che queste derivino direttamente dalla possibilità di comunicazione.

Questo è chiaro anche ai legislatori americani, che ora stanno rivalutando il problema, ma che in passato probabilmente hanno pensato più agli interessi di pochi grandi, piuttosto che al bene dei cittadini che dovevano amministrare. In Europa continuiamo a resistere alla tentazione delle grandi multinazionali, impedendo la regolarizzazione dei brevetti software, speriamo che in futuro i cittadini prendano più coscienza e si rendano conto del rischio che corrono quando ignorano questi problemi.

Il rischio di perdere la proprietà e la paternità delle proprie idee.

Benzina alle stelle? Basta riciclare la plastica…

Da Repubblica:

Dalla Polonia un sistema per produrre – al ritmo di 500 litri di combustibile all’ora, la normale “verde”

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i prodotti in plastica gettati via dopo il loro uso (dalla pellicola trasparente per coprire i cibi alle bottiglie dell’acqua o del latte fino ai pezzi di paraurti delle autovetture), vengono fatti sciogliere lentamente e gradualmente (perché non si carbonizzino) in un reattore catalitico a temperature che arrivano fino a 400 gradi. La materia prima diventa liquida e, grazie alla catalizzazione attraverso un composto di alluminio, si trasforma in vapore di idrocarburi, simili a quelli presenti nel petrolio o nel gas naturale. Il prodotto finale, anche gli scarti, non è inquinante per l’ambiente. Rispetto a esperimenti simili condotti in Giappone e Germania, la macchina del polacco funziona senza bisogno di ricorrere all’alta pressione, e non puzza.

Dopo il raffreddamento si ottiene carburante liquido che la società di Tokarz consegna a due raffinerie polacche. Nella distillazione finale si ottengono fino al 18% di benzina ed al 47% di olio combustibile.

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Il procedimento che l’articolo descrive, se funziona nella maniera resa pubblica eliminando le sostanze nocive derivanti dalla trasformazione in combustibile della plastica, potrebbe essere una alternativa valida all’incenerimento per alcuni tipi di plastiche. Sempre che il procedimento sia economico e la resa sia maggiore alle spese energetiche, cosa tutt’altro che scontata.
In ogni caso la dipendenza dal petrolio rimane, e non mi pare che si possa accostare in nessun modo come soluzione al problema del rincaro del prezzo al barile della materia prima, comunque necessaria per la produzione di plastica (anche se il doppio uso, rende maggiormente efficiente il ciclo).

Se funziona come dice, il polacco diventerà ricco. Io lo spero, ma non ci scommetterei sopra.

Fattorie Aperte – 16 e 23 Maggio 2004

Avvicinare i cittadini alla campagna, guidarli nel riscoprire il legame che esiste tra la terra e la tavola attraverso la conoscenza delle nostre produzioni agroalimentari: è stato questo l´obiettivo, nel 1999, del progetto “Fattorie Aperte”, promosso dalla Regione Emilia-Romagna in collaborazione con le Amministrazioni provinciali e Osservatorio Agroambientale, oggi alla sesta edizione.

Le 256 fattorie aderenti apriranno le loro porte, mettendo in vetrina saperi e sapori e facendoci riscoprire assieme ai prodotti la figura dell´agricoltore che in nome di quella ´multifunzionalità´ che sta cambiando il volto delle nostre aziende agricole, non solo coltiva, ma spesso confeziona, ospita e insegna. Molte di esse seguono metodi di coltivazione biologica (122 le bio) 78 sono aziende agrituristiche, 182 vendono direttamente i loro prodotti, 135 sono fattorie didattiche accreditate.

Un´apposita guida indica le aziende suddivise per provincia, segnalando le fattorie biologiche con una coccinella, riportando indirizzi, caratteristiche produttive e attività che si possono svolgere al loro interno in queste due giornate. Una “mappa” della produzione agroalimentare ed enogastronomica del territorio, suddivisa in nove itinerari provinciali, da Piacenza a Rimini presenta proposte e percorsi alla scoperta delle fasi di produzione e trasformazione dei prodotti tipici del territorio: i salumi, il Parmigiano Reggiano, l´Aceto Balsamico di Modena e Reggio Emilia per l´area emiliana; il vino, l´olio, l´ortofrutta per l´area romagnola.

La guida “Fattorie Aperte” è reperibile presso gli Assessorati Agricoltura della Regione e delle Province e presso la Regione Emilia-Romagna – Urp

http://www.fattorieaperte-er.it/

L’economia del nobile sentiero: ripensare alla globalizzazione/2

Il workshop punta di diamante della tre giorni di Rimini è stato senza dubbio quello su “Acqua o petrolio? I beni della natura vivente non hanno acquirenti”.
Ospite d’onore Lester Brown, noto ai più per essere il curatore dello “State of the World”, pubblicazione annuale del World Watch Institute sullo stato di salute del pianeta Terra, pubblicato in Italia da Edizioni Ambiente.

Lester Brown ha incentrato le sue preoccupazioni ambientali per il futuro che ci attende puntando l’attenzione sull’acqua e sul cibo, oltre che sul riscaldamento globale.
In questo momento Cina, USA e India, i granai del mondo, fondano la propria agricoltura si un eccesso di pompagio delle falde ad uso irriguo. Ad aggiungersi quindi alla crisi idrica prossima ventura c’è il riscaldamento globale. Un grado di aumento della temperatura media porta ad una riduzione stimata della produzione di granaglie a livello mondiale del 10%. L’indicatore economico simbolo del 21esimo secolo non sarà più il PIL o il DOW Jones ma il prezzo del cibo. I segni di questo giro di boa si stanno già manifestando. La Cina ha raggiunto del 1999 il picco della sua produzione e da allora sta cominciando a rivolgersi al mercato per il suo fabbisogno interno.

Tre sono gli ambiti sui quali intervenire prima di giungere al punto di non ritorno: l’aumento della produttività, la riduzione della crescita demografica mondiale e la ricerca di una stabilità politica.
Ridurre i consumi dell’acqua è possibile. Per farlo è necessario secondo Lester Brown dare il giusto prezzo alla stessa e attivare nuove pratiche irrigue volte al risparmio, privilegiano le colture di qualità che richiedono meno acqua, insieme ad una revisione complessiva dei processi industriali.
La popolazione. Secondo lo scenario medio ONU al 2040 sulla Terra saremo in 7,4 miliardi. Per avere un ambiente salvaguardato è indispensabile garantire all’uomo un ambiente sociale favorevole con servizi sanitari ed educazione almeno a livello base.

Energia, economia e politica internazionale sono stati i temi della conclusione di Lester Brown.
Sull’energia si deve puntare massicciamente sull’eolico (gli ambientalisti italiani dovrebbero ascoltare bene) perché ha caratteristiche uniche (ne ha dette sei ma me ne ricordo solo cinque): abbondante, economica, pulita, diffusa, senza emissioni. Il passo successivo saranno le celle a combustibile.
Stoccata pure all’economia che non comprende al suo interni i costi ambientali, falsando il gioco. Se il capitalismo collasserà, lo farà perché non dice la verità ecologica.
Cambiare si può? Sarà costoso? La risposta positiva è data da un parallelismo con gli anni ’40. Nel 1942 gli USA, per far fronte all’ingresso in guerra, in poco tempo modificarono il proprio sistema industriale civile per la produzione di veicoli e attrezzature belliche. Lo stesso, con la volontà, si potrebbe fare oggi, per sterzare verso tecnologie e produzioni in grado di essere meno insostenibili.
Ultimo pensiero per il terrorismo. Secondo Brown (come smentirlo?) Bin Laden avrà vinto la sua partita se avrà successo nel distogliere la nostra attenzione dai problemi veri dello sviluppo economico e della sua incompatibilità con il sistema naturale. Non possiamo permetterglielo.

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